“LAYERS” è una mostra di fiber art strutturata su livelli differenti, leggibile a strati. “LAYERS” indaga la pelle delle cose, il limite, il confine che separa un piano dall’altro e lo congiunge allo stesso tempo. Su questo crinale sottile si gioca tutta la ricchezza di significato legata al contatto, che, come insegna Merleau-Ponty, è toccare ed essere toccati insieme, in un annullamento della dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa.
Sulla superficie dei quei pochi millimetri di pelle che toccano ed esperiscono l’altro, il nostro corpo si fa carne del mondo, entrando a diretto contatto con esso, che a sua volta ci esperisce. In quello spazio fisico minimale vivono lo spazio e il tempo dell’altro. Si scambiano esperienze, memorie, vissuti, che ci ricongiungono a lui empaticamente. In questo contatto si annulla il dualismo soggetto-oggetto, e corporeo e spirituale si fanno tutt’uno.
Una riflessione che sentiamo quanto mai necessaria oggi, in un momento in cui il contatto fisico non è più recepito come portatore di conoscenza ma di malattia, il veleno che viene dall’altro. “LAYERS” indaga allora il contatto come rapporto, relazione, diversità e uguaglianza, attraverso la metafora del tessuto che è quanto di più prossimo alla pelle che l’uomo ha prodotto. Una seconda pelle che genera, dalla biblica foglia di fico in poi, un contatto protetto, che, mentre difende dagli urti e dalle variazioni termiche dell’ambiente esterno, preserva al contempo dalla vista e dal tatto. Con il vestito nascono, per contrapposizione, il concetto di nudità, prima inesistente, il concetto di privacy, che è la nostra propria protezione, e quello di decenza, la protezione imposta all’altro, il nostro non voler vedere la sua nudità. Ed ecco che il vestito diventa per noi “abito”, un’abitudine.
Su questi diversi piani semantici si articola il discorso di “LAYERS”. Una polisemia che si dispiega nella disposizione delle opere nella cornice interna ed esterna di Palazzo d’Adda.
La lettura della mostra inizia dalle opere circolari di Guido Nosari, frutto del periodo di riflessione imposto dalla quarantena. Qui la stratificazione del tessuto da letterale diventa metaforica, andando a costituire un corpo sociale. Quello che prima era un tessuto indossato si è fatto ora tovaglia atta ad ospitare però non più pranzi e simposi familiari, ma la solitudine, l’assenza. Ma se, secondo Wittgenstein, il significato è dettato dall’uso, la tovaglia, una volta privata della sua funzione, diviene un oggetto privo di senso, almeno nel senso sociale del termine. E allora la tovaglia diventa l’emblema della convivialità mancata, desiderata, sublimata in un oggetto fisico che può ora farsi ricordo, veicolando informazioni di un’abitudine passata: portatrice di storie e nostalgie, libro aperto leggibile solo a chi ne conosce il linguaggio.
Attraverso questo messaggio di separazione e ricongiungimento desiderato si entra nel Palazzo d’Adda, guidati dal filo conduttore del tessuto di Nosari, in cui sono riconoscibili merli e decorazioni architettoniche medievali, che, appoggiato alle pareti come a ricalcarne la struttura portante, porta all’interno dell’edificio un po’ del suo esterno. Come un tegumento, un sistema di separazione tra l’ambiente esterno e quello interno, che ne regola gli scambi. Una struttura fatta di concrezioni stratificate di tessuto, un materiale duro e spesso atto a proteggere la parte interna di questo corpo sociale.
All’interno troviamo la parte più delicata dell’organismo: il lavoro di Giulia Spernazza, un filamento di stoffa stracciata sospeso al soffitto, dalla consistenza labile, senza una forma riconoscibile. Una stratificazione verticale, contorta e annodata, che detta allo sguardo una trama che si costituisce come organica, una carne pallida sfilacciata, dall’apparenza di un muscolo, carne da macello che pende dai ganci. Un lavoro che è anch’egli figlio della pandemia, che ha lasciato indietro molti nodi irrisolti, rimasti lì appesi. Sedimentati in concrezioni di materiale, i nodi sono piccole interruzioni del corso naturale degli eventi, negazioni, impossibilità di vita, ferite che lentamente diventano cicatrici del tessuto, che, con il tempo, verranno riassorbite andando a formare la nuova pelle del nostro corpo.
Lo stesso sfilacciamento materico si ritrova nel “livello” immediatamente successivo, che ospita le opere di Giulia Nelli. Qui, dentro e fuori si compenetrano in un ammasso di strati in cui gli organi interni sembrano affiorare tra le pieghe della pelle. Usando il tessuto dei collant, Giulia Nelli unisce modernità e tradizione tessile, esplicitando il doppio valore racchiuso nel termine “legame”: una relazione che ci costituisce e sorregge, mentre allo stesso tempo ci vincola. Legami umani e sociali che vanno a costituire l’identità della persona e il tessuto sociale tutto. Relazioni che con la contemporaneità, nonostante la fitta rete intrecciata dal web, sono diventate sempre più liquide, per citare Zygmunt Bauman, e ci restituiscono a noi stessi sempre più disgregati.
Agli altri lati delle colonne delle Scuderie troviamo i muri di Susanna Cati, strati sottili, epidermici, dall’apparente inconsistenza. Sono tende sottili, effimere, un filtro lieve di discrezione che lascia intravedere, immaginare, e, come ogni velo, desiderare quello che sta al di là. Sono muri trasparenti, muri-paradosso, che non chiudono lo sguardo e non ostacolano il passaggio delle cose e del suono. Un livello di protezione leggero, un confine solo segnato, ma che si può attraversare. Muri attraversabili con lo sguardo e con le mani, atti non alla separazione ma all’incontro: non protezione e impedimento, ma apertura e condivisione. Sono lo squarcio nel velo di Maya di Schopenhauer, che non ostacola più la vera visione delle cose e ci ricongiunge finalmente all’essenza. In questo attraversamento, i muri di Susanna Cati trattengono gli elementi esterni che incontrano: i fili intrecciati a punto tela e macramè disegnano trame, stelle e fiori, piccoli orizzonti inglobati nella sua stessa essenza.
Sui muri laterali delle Scuderie, anche le corolle di Elvezia Allari delineano lo spazio di un’apertura irreale. Sono opere intessute di fili di ferro, con una tecnica che unisce l’energia necessaria a piegare il metallo alla motricità fine e al dettaglio richiesti dalla tessitura. Il risultato sono fiori innaturali che crescono sulle pareti e ci offrono lo spazio dell’altrove. Figlie del giardino di Derek Jarman, che “s’inscrive in un altro tempo, senza passato o futuro, senza inizio né fine”, le corolle della Allari ripopolano gli spazi interni, umani, con gli elementi per eccellenza del paesaggio naturale, i fiori. Sono corolle bucate che lasciano all’occhio il loro spazio interiore per essere riempite. Sono finestre dell’altrove, specchi d’immaginazione, buchi neri in cui entrare e, per un attimo senza tempo, sostare.
Conclude infine il percorso di mostra l’opera di Michela Cavagna, “Nascita”, collocata nell’altro ingresso di Palazzo d’Adda, basso come un cunicolo. Un utero materno, uscita e ingresso allo stesso tempo. L’opera, come gettata a terra, riprende dalla terra i colori naturali, con sfumature sanguigne. Filo intrecciato e irrobustito in superfici stratificate, il lavoro di Cavagna si rifà alle viscere interne che costituiscono il corpo. È un lavoro che porta in sé il sangue che fuoriesce dai tessuti, coagulato al contatto con l’aria esterna. Il ciclo mestruale che si riversa fuori dal corpo, per un uovo non fecondato. Il cordone ombelicale che collega interno ed esterno del corpo, il principio nella madre e la fine nel nascituro. Inizio e fine insieme, flessibile e robusta al tempo stesso, lunga e corta a seconda della forma che le si assegna, l’opera di Michela Cavagna è simbolo del movimento ciclico tra i diversi stadi della vita, tra nascita e morte, ed eterno ritorno.