Zaira, Cloe, Zenobia, Trude, Leonia… Quanto conta che le città di Calvino siano reali? Città in cui le case si confondono l’un l’altra, le strade e i negozi si equivalgono. La gente non si saluta, tutta identica a se stessa. Città che si rinnovano ogni giorno con acquisti sfolgoranti, che rovesciano sul bordo della strada gli avanzi di ieri. In questi scenari futuristici per un romanzo del 1972 ritroviamo le città di oggi, iper-globalizzate, con i centri appiattiti su un identico, unico modello di commercio possibile. Città che non si voltano indietro per valorizzare il proprio passato, intente solo alla sopravvivenza dell’oggi, nel disperato tentativo di salvare se stesse dal divenire nulla domani. In questa minaccia autodistruttiva di produzione e consumo ininterrotti, in cui riecheggia la fine del capitalismo secondo le teorie di Marx, se potessimo fermarci anche solo un istante potremmo vedere l’inizio della fine e trovare forse la via d’uscita. “Cercare”, per citare Italo Calvino, “e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. 

Le analisi dei cinque artisti si intrecciano in scenari ora apocalittici ora perfettamente descrittivi di una realtà postindustriale e postmoderna, che non ha più nell’uomo la sua misura, perché la misura ha sovrastato l’umano. Fin dove si estentono i confini dell’Impero? Dove inizia e finisce Pentesilea? Come nelle “Città invisibili” di Calvino, lo spettatore, nelle vesti di Kublai Khan, sarò portato a esplorare il suo stesso impero, su cui domina ma che non conosce realmente, attravero i resoconti degli artisti, novelli Marco Polo. 

Casamenti pallidi che si danno le spalle in prati ispidi, tra steccati di tavole e tettoie in lamiera. Ogni tanto ai margini della strada un infittirsi di costruzioni dalle magre facciate, alte alte o basse basse come in un pettine sdentato, sembrano indicare che di là in poi le maglie della città si restringono”

Il “Futuro semplice” di Mauro Pinotti, con i suoi edifici fitti in ferro arrugginito e cemento, si presenta come una città impenetrabile, chiusa ed eterna, deserta di ogni presenza umana. Perfettamente allineati in blocchi di casermoni o arroccati su alture improbabili, gli edifici di Pinotti sono corrosi dal tempo, mangiati dalle intemperie a cui, nonostante tutto, resistono. 

Ma come appaiono le nostre abitazioni viste dall’alto, da uno sguardo altro? Come differenziare una città dall’altra, una casa dall’altra, senza poterne vedere dall’interno l’aspetto? Quanto ci siamo uniformati l’uno all’altro, fino a rendere le nostre città blocchi di costruzioni fittizie, in cui una casa vale l’altra, una vita, forse, vale l’altra?

I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Puoi riprendere il volo quando vuoi, mi dissero, ma arriverai a un’altra Trude”.

I lavori di Davide Oddenino, architetto, mostrano una prospettiva delle città presa dallo Zenit, una prospettiva meccanica, non umana, in cui svanisce ogni forma di differenziazione. Da questo punto di vista la città appare perfetta come in un gioco di costruzioni, astratta e affascinante come un quadro di Mondrian, ma per l’uomo sempre più inospitale.

E cosa resta del passato umano? Dove sono le tracce, la memoria?

Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, virgole”.

Le opere presentate da Paola Rizzi sono sequenze di porte di edifici abbandonati, dove il tempo dell’abitare resta solo come traccia lasciata sulle case. Muri scrostati, porte sbarrate, edera sui muri: abitazioni seriali, tutte simili l’una all’altra eppure così diverse per via di un particolare che sfugge all’occhio distratto. Abbiamo ancora la capacità di osservare, di riconoscere il particolare, di ricordare cosa rende un luogo unico e speciale? Le opere sono stampate su supporti murali, come affreschi, e su cemento poggiato su legno fossile, a sottolineare la traccia del tempo.

Relegata per lunghe ere in nascondigli appartati, da quando era stata spodestata dal sistema delle specie ora estinte, l’altra fauna tornava alla luce dagli scantinati della biblioteca dove si conservano gli incunaboli, spiccava salti dai capitelli e dai pluviali, s’appollaiava al capezzale dei dormienti. Le sfingi, i grifi, le chimere, i draghi, gli ircocervi, le arpie, le idre, i liocorni, i basilischi riprendevano possesso della loro città”

Grattacieli così grandi da oscurare il cielo li troviamo nei lavori di Gabriele Buratti, dove l’uomo lascia il posto all’animale, che imponente e libero gira su strade aperte tra le case e ora lasciate deserte, senza scopo. Come un ritorno della natura, un confronto tra specie viventi dove è l’uomo, definitivamente, a soccombere e la natura a ritornare.

La natura, per come la viviamo oggi, è un intervallo tra le città, una pausa di riflessione, un respiro tra le attività quotidiane. Non c’è coinciliazione possibile perché l’appetito dell’uomo è insaziabile.  La deforestazione, l’inquinamento che sta distruggendo non solo la natura, ma l’uomo stesso, ne causerà un giorno la scomparsa. 

Tu mi rimproveri perché ogni mio racconto ti trasporta nel bel mezzo d’una città senza dirti dello spazio che s’estende tra una città e l’altra: se lo coprano mari, campi di segale, foreste di larici, paludi”

Come contaminate da un virus letale, le radici degli alberi di Stefano Porfirio hanno mutato colore, divenendo rosso sangue, allargandosi al suolo come tentacoli turgidi e minacciosi. Come vene improvvisamente esplose, con un immenso allagamento del terreno circostante, come un’enorme ferita della terra, gli alberi di Stefano Porfirio crescono come un cancro nelle foreste naturali, non lasciando più spazio al ciclo della vita. Soffocano, con il loro colore alieno, ogni crescita vegetale, rendendo impossibile la vita animale, e, da ultimo, quella dell’uomo.